Lisbon Story.

António Ribeiro Chiado è proprio lì, faccia a faccia con Pessoa.

A dividersi una piazza, e il suo flusso in continuo movimento.

Mi siedo proprio sul muretto che sembra tagliare a metà un incrocio di strade.

Un sabato pomeriggio di passanti veloci, di vite solo sfiorate, a pelo d’acqua.

Pessoa, col suo volto indecifrabile e beffardo, quasi come le frasi lette, rilette e sottolineate dei suoi libri, è seduto lì.

Ancora.

Imperturbabile e solo.

Si inventa nomi.

E biografie, case, indirizzi, impieghi.

Poeti, filosofi, ingegneri, insegnanti e pensatori. Tutti come molteplici sfaccettature di se stesso. Uomini che diventano lo specchio di un uomo solo, che tutti li contiene, come liquefatti in un enorme crogiolo di infinito.

Sguardi sulla vita, sulle vite, letteratura e letterature. Parole che una accanto all’altra compongono pensieri, i suoi.

Mentre osservo la piccola contrattazione che accompagna la vendita d’un bracciale intrecciato mi soffermo a riflettere su quell’Uno e quei Centomila.

Quanti uomini popolano ognuno di noi?

Dove si celano ?

Dove li nascondiamo da sguardi indiscreti, da giudizi approssimativi, da preamboli buoni solo a generare confusione…?

E qual è il volto di Lisbona?

Quale maschera indossa, pure lei, per nascondere le fragilità e i pianti?

Da che “mirador” si osserva per comprendere il dolore incommensurabile che devasta la sua anima?

Lisbona tiepida, vivace, e leggera come una piuma, ma anche facile alla malinconia, abissale come oceani plumbei.

Avvezza alla saudade.

Una malinconia di un bene perduto, d’una ninnananna scordata, d’un attimo dolce e triste insieme.

Qualcosa che è allo stesso tempo assenza e disìo.

Dolce e anelato, drammatico e perduto.

Lisbona cosmopolita e verde, tra nuovo e antico.

Decadente e sostenibile, moderna e sgretolata. Alla mercé del vento e della salsedine.

Lo stridente incedere del tram mi riporta al presente. La sua precarietà mi assomiglia. Barcollo pure io, mi fermo, prendo fiato e riparto. Accolgo senza mai tirarmi indietro, e salgo su in alto, fino a toccare il cielo ma scendo anche giù, all’impicchiata, rischiando di schiantarmi in una piazza vecchia di cinquecento anni.

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